Giovedì 6 un bimbo di 5 anni a Roma è stato travolto e ucciso da un’auto, sulle strisce: l’ennesima piccola vittima della strada. Chi lo ha ucciso, sconvolto, dice che non l’aveva visto, che è sbucato all’improvviso. In effetti basta poco per ammazzare sulla strada, non c’è bisogno di essere ubriachi o drogati. Tutti possiamo distrarci, confonderci, essere abbagliati dal sole, pensare ad altro, sbadigliare o starnutire, dare un’occhiata al cellulare, avere un colpo di sonno o un crampo. Non bisogna demonizzare gli automobilisti, è vero, ma l’auto sì.
Mi dicono: “Ma l’auto è un mezzo come un altro”. No, non è vero. Ogni mezzo ha il suo peso, la sua velocità, la sua intrinseca e potenziale letalità. E quella delle auto è alta. Sparare a 30-50-80-100 km/h una o due tonnellate di ferraglia è potenzialmente letale. Ma questo concetto è di difficile comprensione: per gli italiani, guidare è un’abitudine dura a morire, una moda consolidata da decenni di martellamento pubblicitario che hanno dipinto l’auto come innocua, familiare, un mezzo per raggiungere libertà e benessere.