Il libro è interessantissimo fin dal primo capitolo che ripercorre la storia della bici e dell'auto, col progressivo predominio dell'auto nelle città, fino a quando nel 1971 Georges Pompidou tuona i suoi propositi: bisogna "adattare le città alle auto". E così le autostrade irrompono in pieno centro a Marsiglia, a Parigi, o a Strasburgo. "La motorizzazione a oltranza ha contribuito alla disumanizzazione dello spazio pubblico" dice Razemon. Ogni anno sempre più auto si producono rispetto all'anno precedente in tutto il mondo.
Per tanti usare la bici è solo lo "sport della domenica", un passatempo, per altri un capriccio, per altri ancora la bici è solo un pericolo pubblico e i ciclisti quasi criminali.
Al di là di tutti i suoi detrattori e di tutti gli ignoranti, la bici resta la più bella e democratica conquista dell'uomo, che non solo ridurrà il riscaldamento climatico e l'inquinamento atmosferico, ma renderà più vivibili le nostre città. Le bici salvano le economie locali e solidali in tutto il mondo: Arundhata Roy, premio Nobel per l'economia del 1998, sostiene che " la bicicletta fa bene il suo dovere nei villaggi indiani, perché permette di percorrere 5-10-20 miglia per vedere il proprio raccolto o scambiarsi informazioni". In Bangladesh l'organizzazione D.net propone un servizio di connessione a internet fornito da donne che si spostano in bicicletta (p.28). Fino a Kampala, capitale dell'Uganda, dove un'urbanista illuminata Amanda Ngabirano (anche chiamata Madame Bicycle) ha avviato un progetto a favore della bici. In Tunisia nel 2012 un collettivo di associazioni distribuisce bici ai bambini delle campagne per permetter loro di andare a scuola. Nei paesi scandinavi, ma anche in Canada, sempre più mestieri si tornano a fare in bici: i corrieri in bici fanno parte del paesaggio urbano in tante città, a Montreal ci sono aziende che fanno anche traslochi in bici! Tutti esempi portati da Razemon per dimostrare quanto la bici sia fondamentale per garantire l'economia locale e solidale e rivitalizzare il tessuto urbano. "Disegna un'economica adatta al reddito di ognuno, cosa che non succede con l'automobile"; anche perché ognuno, con un po' di pratica e buona volontà può aggiustarsi la bici da sé: Razemon descrive le Ciclofficine popolari di Roma, che uniscono l'aspetto ambientale (si ripara, non si butta), e l'aspetto sociale (le ciclofficine sono luoghi di ritrovo, centri sociali a tutti gli effetti, dove "i ragazzini del quartiere vincono la noia imparando il bricolage").
Come realizzare questa transizione ciclabile? Non basta realizzare piste ciclabili, ma far sì che la bici sia considerata il mezzo di trasporto principale, almeno in città. Dalle zone 30, ai doppi sensi ciclabili, al "girare a destra" cioè la possibilità di girare a destra, per i ciclisti, anche quando il semaforo è rosso (novità già inserite nel Codice della strada francese). Gli strumenti per facilitare la vita ai ciclisti urbani sarebbero molte: ad Innsbruck le bici si possono trasportare nei bus anche urbani, a Strasburgo le multe per chi infrange il codice della strada sono più basse per i ciclisti che per gli automobilisti. Soprattutto Razemon ci dice di guardare a quei paesi dove già da tempo la bici dà la forma ad una identità collettiva: sono i Paesi Bassi, la Germania, la Norvegia, la Danimarca. Mentre i paesi del Mediterraneo, nonostante il clima più favorevole, sono rimasti ancorati ad una mentalità "auto dipendente" e ad una predominanza dell'auto.
Leggendo questo bellissimo libro, mi sono chiesta: se Razemon si lamenta della mobilità sostenibile in Francia, dove il tasso di motorizzazione è più basso che in Italia, dove il "bike to work" è legge, e dove vige un codice della strada più favorevole agli utenti deboli di quello italiano, cosa possiamo fare noi che viviamo in un Paese col più alto tasso di motorizzazione in Europa (dopo il Lussemburgo)?
Bisogna andare avanti, non c'è scelta.
E che la forza (dei pedali) sia con noi ;)
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